LA MIA INFANZIA SOVIETICA
Ricordi e nostalgie di un'italiana.
Le avvertenze speciali:
Può contenere le tracce di russo, nonché gli errori grammaticali, sintattici, stilistici. Può provocare i danni all'italiano dei bambini sotto i dieci anni. Si raccomanda pertanto di tenere fuori dalla portata dei bambini.
L'elenco dei ringraziamenti e dei rimproveri
Ringrazio di tutto il cuore:
Mio marito Riccardo
- Per avermi permesso di usare il suo computer
- Per aver corretto la prima versione del libro.
- Per avermi permesso di scrivere invece di cucinare, lavare, pulire, stirare…
Teofil Mugnaini.
- Per aver corretto la seconda versione del libro, per i suggerimenti e le domande.
Rimprovero severamente:
Mia figlia Anna
- Per essere stata una lagna.
Il computer
- Per non aver salvato la prima versione del libro.
Nostalgia – desiderio malinconico e violento di tornare in patria, ossia di rivedere i luoghi dove passavamo l'infanzia e dove albergano oggetti cari, il quale è cagione di profonda tristezza e di tale sconcerto nell'economia animale, da produrre persino la morte.
Il tempo sciupa le cose, le rovina, ingiallisce i fogli, le stoffe bianche. La nostra memoria, invece, le conserva così com'erano in passato, anzi, le restaura, le pulisce da ogni impurità... soprattutto se la nostra vita quotidiana scorre lontano dai luoghi d'infanzia e non c'è la possibilità di rivederle, ritoccarle, di verificare, insomma, se sono davvero così bianche, così belle, come ce le restituisce la memoria ed ecco cosa succede: “l'erba nel mio paese d'origine era più verde, il cielo - più alto, le persone – più cordiali, il cibo - più buono”... l'unico rimedio alla nostalgia non è il tempo, perché la nostalgia si nutre del tempo, mescolando sapientemente il tempo con i ricordi per ottenere un buon vino che con il tempo diventa più forte e più aspro. L'unico rimedio è la volontà di mettere le radici.
Non so come si adatta un organo trapiantato – cuore, rene – all’organismo del ricevente né dal punto di vista medico o biochimico né dal punto di vista delle sensazioni. Non so come si abituano le piante trapiantate al posto nuovo – allargano le radici, si adattano al terreno nuovo, alla luce. Ne so qualcosa invece su come si adatta al posto nuovo un essere umano – lo so per esperienza. I nomi e i cognomi non suonano più strano e non fanno più nemmeno sorridere certe parole che per assonanza somigliano a qualche parola della tua lingua madre, si accumulano le abitudini nuove, si moltiplicano i ricordi. Non sembra strano mangiare a colazione un po' di biscotti con il latte anziché un sostanzioso piatto di pasta con magari un paio di wurstel, e il melone con prosciutto anziché un bel borsch di bietole con la panna acida a pranzo... Cominci ad avere i ricordi legati a questo posto e non ti senti più un estraneo, anzi, puoi dire anche tu: “faceva così caldo anche tre anni fa..., mi ricordo, che anche nel 2006 c'era tanta neve così”, l'accento acquista quell'inconfondibile “k” sorda toscana (anche se non riesce a soppiantare del tutto quello più forte - russo). Sembra che non c’è più il pericolo del rigetto, che l’organo trapiantato si è adattato bene… Ma un giorno sfugge dal libro una vecchia foto….
Una vecchia foto sfuggì dal libro, sembrava in bianco-nero, così pochi ce ne erano i colori: il bianco della neve, il nero degli alberi, il grigio del cielo e del ghiaccio. Riconosco ogni albero, riesco a intravedere sulla riva opposta dello stagno un sentiero e una vecchia panchina verde rotta, sono sommersi dalla neve e nella foto non si vedono, ma io li vedo con gli occhi della memoria. Conosco questi salici da quando ero bambina – due sfere verdi, alte come me, sognavo che crescessero più in fretta per farci sotto una casetta e giocare. Ora sono cresciuti, ma anche io… Dietro le betulle piangenti – piangenti e profumati cerasi. Qualcuno sogna di trovarsi ad improvviso a Parigi, magari solo per un giorno: camminare per le Champs-Elysèes, salire verso Montmartre, vedere con i propri occhi, perdersi… Per me un miracolo – trovarsi in questo parco innevato, almeno per un attimo, sotto quella quercia, chissà se c’è ancora, nascosta fra le sue radici una piccola scatola di latta con un “segreto” dentro; o mettermi su quella panchina inclinata dove giocavo “al negozio” con mia nonna; respirare il profumo dei cerasi in fiore…
I profumi.. spesso sono proprio i profumi che ti riportano indietro, in un istante ben preciso del passato. Il profumo di rosa canina (giugno, ci siamo appena trasferiti in campagna, fra poco c'è il mio compleanno); di gelsomino (che poi, botanicamente parlando sarebbe Philadelphus). Un grande cespuglio vicino a casa, troppo vicino, che tocca i fili elettrici e il nonno ogni anno lo taglia, per poi, un'estate, disfarsene. Mi dispiaceva molto, era così profumato, così allegro, così generoso, con i suoi petali bianchi facevamo l'acqua di colonia); il profumo del infuso delle foglie di ribes nero, appena fatto (maggio, i primi fine settimana in campagna, con tutta l'estate ancora davanti, il tè sulla veranda, il samovar); il profumo delle fragole (bisogna raccoglierne un pentolino e poi metterci dentro la faccia, toccandole appena con il naso – così il profumo è più forte); dei pomodori (non del frutto, ma proprio della pianta, basta strofinare lo stelo, schiacciando i piccoli villi – marzo, l'estate è ancora lontana, c'è ancora la neve dappertutto, anche sul balcone, ma la nonna fa crescere le piantine di pomodoro sul davanzale in camera, e quando di tanto in tanto tocco lo stelo, mi sembra di pregustare di già l'estate), profumo delle frittelle di zucchine (agosto, una giornata di pioggia, quando non si può uscire di casa e anche andando semplicemente in bagno, che è fuori casa, ci si bagna passando accanto alle rose e alle ortensie, appesantite dalla pioggia e inclinate verso la stretta stradina che conduce al gabinetto), dei funghi secchi, appesi sopra il piano cottura sui fili di colore diverso: verde – porcini, rosso – porcini con cappello rosso, blu – porcini sotto betulla (agosto, e il presentimento dell'autunno comincia a tremare dentro, colora d'inquietudine le giornate già tristi per via della pioggia grigia e noiosa), profumo delle fragoline di bosco (una splendida mattina di giugno, il semolino al latte a colazione ed io vado a raccogliere le fragoline nel piccolo pentolino, il semolino con le fragoline di bosco – una vera delizia!), il profumo dell'erba appena tagliata nel giardino Botanico di Mosca (giugno, siamo scappati dalle piogge e dal freddo, venuti via dalla campagna, dove non c'è l'acqua calda, non c'è riscaldamento, per disgrazia anche a Mosca manca l’acqua calda, ogni anno a giugno la staccano per i lavori di manutenzione, ma di solito non si vede nessuna manutenzione. Poi, a novembre, con i primi geli con la regolarità quasi matematica, si verifica la perdita dell'acqua da qualche tubo e rimaniamo di nuovo senza acqua calda. Eppure questa vita in campagna, senza l'acqua calda, con il gabinetto fuori, con l'elettricità che mancava spesso, specialmente dopo i temporali e a metà di qualche film interessante, era un paradiso! Tornavo malvolentieri a Mosca, sia a giugno, sia definitivamente, a fine stagione, in agosto); il profumo delle mele antonovka in autunno inoltrato, quando giacciano sul divano nella casetta di campagna, protetti dalle prime gelate con i vecchi giornali e le coperte, profumo dei piccoli garofani nelle notti quasi bianchi di giugno e del tabacco profumato sotto il cielo stellato di agosto. E voi, italiani, sicuramente avrete i vostri ricordi, i vostri profumi, le vostri associazioni così diverse e così comuni nella loro nostalgica irrevocabilità.
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In infanzia le stagioni sono ben distinte: la stagione delle malattie pian piano lascia posto alla stagione delle calze (tutto l'inverno e la maggior parte della primavera portavamo le calze pesante e a volte anche orribile ghette di lana). E poi – finalmente! - la sostituisce la stagione della dacia, delle vacanze!
Qualcosa di buono c'era anche durante la stagione invernale, moscovita, ma veniva sciupato e quasi annientato dalla noia della scuola. Pensate che fino a vent'anni sapevo di più di Lenin – dove e quando era nato, quanti fratelli aveva, come era da bambino (perché già dalla prima elementare portavamo un distintivo di oktjabrenok (i piccoli seguaci di Lenin) con il ritratto di Lenin da piccolo – un bambino bello e riccioluto, quasi come Gesù), che di Gesù Cristo! Non mi ricordo se avevo sentito qualcosa di Gesù fino alla tarda età, della Chiesa sì ma in un contesto sempre negativo, e la prima cosa che mi veniva in mente quando sentivo la parola “religione” era “l'oppio del popolo”. Si festeggiava la Pasqua ma sembrava un culto pagano e non una festa cristiana: facevamo una specie di panettone, coloravamo le uova, andavamo al cimitero. Basta. Non era una festa proibita o clandestina, era tollerata per annientare il significato cristiano e farla diventare una festa popolare (l'arrivo di primavera, insomma). Il compleanno di Lenin, invece, si festeggiava con il vestito bianco a scuola, con i fiori davanti al suo ritratto in ogni classe, con solenni riunioni e concerti. Alcuni (privilegiati) andavano persino al Mausoleo, dove era esposta la mummia di Lenin, gialla e piccola, come di cera, ma guai a dirlo 30 anni fa! Si rischiava la detenzione! Era venerato, insomma, come un Dio. Ho ancora i libri propagandistici e assurdi sulla sua infanzia... L’Unica cosa che mi ricordo di religione a parte che era “l'oppio del popolo” e i numerosi musei di propaganda antireligiosa è la poesia di Bagritskij. Parlava di una ragazza ammalata di scarlattina che veniva supplicata dalla madre di indossare la piccola croce battesimale, la bambina, avvelenata dalla propaganda antireligiosa, rifiutava e moriva. Imparavamo a memoria questa poesia e la professoressa della letteratura ci spiegava, ovviamente, com'era brava Valentina, la giovane seguace di Lenin. A me faceva l'effetto contrario: pensavo: “e se avesse indossato la croce? Magari sarebbe guarita.” e comunque non riuscivo a mettere gli ideali politici prima di tutto, prima della stessa vita. Anche Natale non esisteva. Chissà perché hanno lasciato le tracce della Pasqua e hanno cancellato completamente il Natale? Forse perché non si poteva trasformare il Natale in una festa pagana, già il nome Natale suscitava curiosità – ma chi è nato? Invece la Pasqua era un concetto abbastanza astratto.
Ma per me a quell'epoca la politica finiva con le parate nella piazza Rossa – il 7 di novembre e il primo di Maggio – le due più importante feste. Il primo di maggio mi è sempre piaciuto perché la gente tornava dalla manifestazione con i palloncini e i grandi fiori di spugna colorata. Ma i miei genitori non mi hanno mai portato. Per il 7 di novembre, invece, sulla facciata principale dell'albergo di fronte alla casa di mia nonna mettevano tre ritratti: Engels, Marx e Lenin. Mi faceva ridere la barba di Marx e lo chiamavo – chissà perché – kisel' (una bevanda gelatinosa di bacche, zucchero e fecola). A casa mia di politica si parlava poco. Mio nonno era un comunista convinto e fedelissimo, era abbonato di “Pravda” chissà da quanti anni. La mia mamma non parlava della politica per precauzione - ”Anche le mura hanno le orecchie” - diceva. Poi, ovviamente, a scuola c'erano le cose noiosissime: concorso di canzoni militari (bisognava marciare tutti in fila con la bandiera e cantare qualche canzone più o meno militare o patriottica), poi una volta a settimana prima delle lezioni c'era mezz'ora di politica: ai ragazzi dodicenni, mezzi addormentati (specialmente d'inverno con freddo, buio e la neve) le maestre altrettanto addormentate o invece con gli occhi ardenti di patriottismo parlavano della guerra in Nicaragua, dei senza casa in America, di crisi e recessioni in Spagna e in Grecia. Per finire, ovviamente, con le conquiste nei paesi socialistici. E noi, ragazzi? C'era chi copiava i compiti dal compagno, chi dormiva con gli occhi aperti, chi scriveva i bigliettini ai compagni...
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I miei ricordi sono come una coperta patchwork. Non una elaborata e sofisticata, ma semplice, rustica, fatta con pezzi di vecchi vestiti.... Quadretti colorati, serbatoi del passato dove ogni pezzo di stoffa evoca una persona, un evento, un gioco, un periodo della mia vita.... Questo pezzo, blu a pallini bianchi era una volta il vestito di zia Ženja o solo il suo parente, cioè solo un pezzo della stessa stoffa? Questo, punteggiato, con le farfalle e le libellule – un pezzo di lenzuolo, e quello accanto, arancione ardente, come la coda dell'uccello di fuoco – gli avanzi di stoffa del sarafan di mamma, e infine questo, con i fiorellini, il mio preferito – tutto quello che resta del vestito di mamma, sembrava il vestito della principessa, mi ricorda il tè in campagna, che si riscaldava nel samovar, le giornate lunghe, piene di sole e di gioia, e ora non ne rimane niente, solo questi pezzi di stoffa e tanti ricordi...
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La nostra casa in campagna era sempreverde, non solo “d'estate e d'inverno”, come nell'indovinello dell'abete: “d'inverno, d'estate ha lo stesso colore” ma sempre, per quanto mi rammento.
All'inizio su tutti e due i lati del cancello crescevano le betulle. A primavera, quando in campagna andavano solo gli adulti, perché era ancora troppo freddo, il babbo ci portava a volte il succo delle betulle, trasparente, appiccicoso e dolciastro, ricordo anche le fruste di betulla, appese nel ripostiglio o in soffitta, o nella doccia, ma non mi ricordo che qualcuno le avesse mai usate secondo l'uso, e cioè in sauna, battendo con esse sulla schiena. Ogni estate il nonno tagliava i rami delle betulle in cima (ecco da dove venivano le fruste!) - perché non toccassero i fili elettrici, così con il tempo le betulle sono diventate due moncherini, che servivano da supporto prima all'altalena e poi alla vite Canadese. Alla fine sono state sradicate perché non impoverissero il terreno già esausto. Lo spazio a destra dell'entrata era sempre in cambiamento: prima qui ce erano le aiuole delle fragole, poi, un giorno – mi ricordo che in quel periodo siamo rimasti in campagna con il babbo, perché era in vacanza, e lui partecipava con entusiasmo al nostro lavoro – abbiamo estirpato le fragole per realizzare il mio ennesimo progetto paesaggistico: “ruscello” di sedum con le rive rivestite di diverse piante e due ponticelli finti ma ben sistemati di steli secchi di lamponi. Il tempo ha rovinato i ponticelli, le erbacce - il “ruscello”... Ora il babbo parcheggia lì la sua macchina...
Anche a destra dal cancello d'entrata tutto era diverso. A cominciare dagli alberi lungo lo steccato: prima vi crescevano le betulle, ora ci sono i meli, poi questa parte del giardino è sempre stata la più selvaggia, con l'erba alta e fitta e le piante erbacee perenni, sembrava un mini-prato, ma a quei tempi non si sapeva niente di prati di Miriam de Rotschild, già un semplice prato “all'inglese” era un lusso, perché era considerato uno spreco. Non si pensava molto all'estetica: tutto lo spazio del giardino (che poi non era un vero e proprio giardino, ufficialmente si chiamava “appezzamento di terra”, “sei centesimi di ettaro”, “šcest' sotok”, ma noi lo chiamavamo “dacia”) doveva essere rigorosamente coltivato e riempito di alberi di frutta e di ortaggi: patate, zucchine, cetrioli, pomodori, lamponi, fragole, prezzemolo, zucche, ribes nero, ribes rosso, bianco, uva spina, amarene... L'esclusione è stata fatta per i clematidi, le rose, i gladioli ed alcuni fiori perenni. Un sentiero fra macchia di fiori altissimi (mi ricordo i gigli, le margherite e i lupini e un grosso cespuglio di rosa canina) nel mezzo all'erba alta quanto me, conduceva ai lamponi. Forse i fiori non erano cosi alti, ma ero piccola io. Proprio in questa parte del giardino si trovava il mio fazzoletto di terra. Ecco da dove viene, dove prende l'inizio la mia passione per i giardini, per le piante in generale e per i semprevivum e i sedum in particolare (anche se allora li chiamavamo semplicemente “il muschio”). Non so, quante specie ce ne erano nella mia collezione, ricordo il muschio verde che fioriva con i minuscoli fiorellini gialli (mi sembra, che gli adulti lo chiamassero “pianta grassa”), il muschio color grigio azzurrognolo, che aveva i fiorellini bianchi (lo scambiai con Natasha – la mia miglior amica “estiva”) e alcuni “cavoli” come li chiamavo per la loro forma (era forse un semprevivum?) - l'oggetto del mio orgoglio, lo rubai nel giardino botanico di Mosca, passeggiando con la nonna....
Dietro la casa (si diceva “dietro”, ma in realtà era il lato destro della casa) ogni primavera si piantavano circa cinque chili di patate germogliate, belle grosse o medie e ogni agosto si scavava la “raccolta”: ogni pianta dava di solito una patata grossa e una decina di patate-nane di grandezza dei ceci, non più di tre chili in tutto... L'anno dopo tutto si ripeteva con ostinazione.
E così tristemente piacevole ricordare questi tempi – come se tornassi indietro nell'infanzia, anche se sono consapevole che ciò non è possibile.
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I miei ricordi si smembrano e la memoria afferra i frammenti e i pezzi. Magari un giorno riuscirò a recuperare tutto?
Il pane dolce che faceva la nonna, inzuppando il pane bianco nella miscela di latte, uova e zucchero, o le frittelle di zucchine – mmmm, che bontà! A volte la memoria restituisce un pezzo del passato, un piccolo episodio della vita quotidiana, così minuscolo, così comune, così privo di particolari, che ti chiedi: “ma che senso ha ricordarlo, tenerlo in qualche angolo remoto della memoria ed estrarlo da lì proprio ora? Che significato ha?” Non so perché mi ricordo spesso che lavavo i piedi nella doccia prima di andar a letto e li asciugavo – in piedi, senza sedermi, tenendo l'equilibrio su una gamba – con un vecchio lenzuolo, ridotto oramai a uno straccio. Mi ricordo anche il giorno quando la mamma doveva andare a Mosca, perché aveva finito le ferie (già aveva le ferie lunghe, perché lavorava a scuola: tutto il mese di luglio e metà agosto, ma prima o poi dovevano pure finire!) ed io raccoglievo per lei i fiori – le margherite, era piovuto da poco e le margherite erano bagnate – grossi e grandi fiori. Ero triste, perché la mamma partiva.
Altri ricordi, altri episodi dell'infanzia: io e la mia amica Natasha che torturiamo le cavallette (non erano “le cavallette” dal punto di visto zoologico, ma erano i grilli 3 volte più grandi degli altri e per la loro imponente grandezza le chiamavamo “cavallette”) che andiamo a prendere sul prato – “oltre la rete” - la nostra “società dei giardinieri, “Il Giubileo”, che si chiamava così ad honorem dell’ennesimo giubileo della rivoluzione d'Ottobre. Mi sa che qui devo fare una piccola deviazione dal testo originale russo per spiegare un concetto particolare quello della “società dei giardinieri”. In pratica era (ed è tuttora, anche se quasi desueta grazie ai processi demografici – estinzione dei pensionati, e politico-culturale – orientamento dei vacanzieri verso centri balneari europei e asiatici) un villaggio di vacanze estive e di riposo attivo – perché di solito si lavorava in dacia: si piantava, annaffiava, diserbava, raccoglieva – con la variazione delle stagioni la raccolta variava dagli scarafaggi, bruchi e altri parassiti dei giardini a lamponi, fragole, pomodori, cetrioli (il primo gruppo, comunque, era sempre più numeroso del secondo) dei moscoviti. Erano circa 600 “appezzamenti di terra”, di “sei centesimi di ettaro” ognuno, concessi ad uso personale per fare un frutteto o un orto, ma appartenenti allo stato ed erano organizzati in un associazione, una società con le funzione amministrativo-finanziarie. Allora il territorio di questa società “Giubileo” era recintata con una rete di ferro – non so se fosse necessario secondo le norme legislative oppure servisse da barriera contro i paesani, in ogni caso questa rete aveva diversi buchi che i grandi usavano per accorciare la strada al negozio di alimentari il quale si trovava in località Vorovskij, e noi, ragazzini, usavamo questa scorciatoia per andare a cercare i funghi lungo un fosso pieno di acqua putrida color ruggine, e poi di scatolette, buste di cellofan e altro pattume o per andare a caccia delle cavallette. Spesso queste imprese erano improvvisate, cioè in mezzo ad un altro gioco o durante un vagabondaggio per le strade della villeggiatura ci veniva l'idea di andare a prendere le cavallette, e così, senza munirci né di barattoli né di secchi andavamo a caccia. E per questo portavamo spesso le nostre prede nei calzini tolti li per li. Nei vani tentativi di liberarsi mordendo il calzino le prede lo sporcavano dei puntini marroni. I nostri interessi zoologici non si limitavano alle cavallette. Eravamo onnivori. Giocavamo con le formiche, prendendole con le mani dal vecchio formicaio e costruendone uno nuovo, dove ci faceva comodo, per giocare; catturavamo le lucertole a secchiate (ora solo a pensarci mi viene senso, ma all'ora mi piacevano!) Adoravo anche le piccole ranocchie, appena uscite dalle pelle dei girini, anche questi ultimi mi piacevano – abitavano vicino alla fabbrica in una grande pozzanghera che si disseccava solo durante il mese più caldo – a luglio. Venivo accompagnata dal babbo a prenderli, perché non mi era permesso di uscire da sola o con le amiche-coetanee dai confini del luogo di villeggiatura, limitati dalla già descritta rete di metallo e dai due cancelli che erano anche i confini della mia libertà a quell'epoca. Abbandono per un po' il motivo zoologico per parlare dei limiti e dei confini. La mia libertà era limitata durante il maltempo o quando non stavo bene (di solito era la diarrea, provocata dai frutti acerbi, soprattutto l'uva spina – la mangiavo esclusivamente acerba, quando i frutti non sono ancora morbidi e gonfi di succo, ma croccanti e agri) – in tal caso mi era proibito di uscire di casa ed era il primo grado di limitazione, mi dispiaceva comunque rimanere a casa ma il motivo era ragionevole, comprensibile, perciò non mi sentivo offesa, ma solo dispiaciuta. “Oggi non puoi uscire dal cancello” - il secondo grado di limitazione, punizione; poi c'erano i confini imposti “fino al bivio”, “fino al grande bivio” che poi non era più grande del primo, ma solo il più distante, ma ugualmente si chiamava “il bivio grande”, “fino al cancello dell'entrata”, “fino al piccolo stagno”, “fino al grande stagno”, “fino alla stazione” (solamente accompagnati dagli adulti) – sono i termini della nostra infantile geografia, i nostri punti di riferimento nello spazio.
Ora, dopo 4-5 pagine di testo, il passato non è più passato; più descrivo la mia infanzia e più si avvicina, o io mi allontano dal presente per diventare di nuovo una bambina con le trecce?
Maggio. Io e i miei genitori ci avviciniamo al palazzo dove abitano i nonni paterni (abitano a due passi da noi, per fortuna, così la nonna mi prende da scuola e non sono costretta di mangiare “i pranzi orrendi” del doposcuola). Ecco il loro portone. Il nonno non è ancora sceso – come al solito sta controllando, con la sua meticolosa accuratezza, se il gas è chiuso, la luce è spenta, l'acqua non sta gocciolando dal rubinetto... La nonna indossa i vecchi (forse, non sono per niente vecchi, ma dalla distanza degli anni li vedo così) pantaloni blu della tuta e una maglietta con il collo alto beige a righe orizzontali blu scuro, ha il vecchio zainetto dietro le spalle, color lino slavato, la scatola di cartone con le piantine di pomodori allungati e un po' pallidi perché cresciuti in camera sul davanzale è appoggiata per terra vicino alla panchina. Ecco finalmente il nonno, allora prendiamo il nove (non è il modello dell'automobile “Zhiguli”, è il filobus numero nove, che porta dall'albergo “Ostankino” di fronte al quale abitano i miei nonni fino alla piazza di Dzerzhinskij intitolata in onore del presidente della Cheka, un bravo rivoluzionario per noi, innocenti pionieri degli anni 80, scopriremo chi fosse davvero – uno dei massimi responsabili del “Terrore rosso” scatenatosi dopo l'attentato a Lenin – solo dopo l'87) per andare in campagna!!! Si potrebbe prendere anche la metropolitana, ma a me non piace: c'è sempre rimescolio e calca, appena sali in treno – è già ora di uscire, “il nove” - è tutt'altra cosa: un vero viaggio, tranquillo e contemplativo che dura buoni 40 minuti prima che il filobus arrivi alla piazza degli Kolhoz (d'altronde, ai tempi della mia infanzia c'erano poche macchine e la piazza era ancora libera dal traffico e il viaggio era più tranquillo). Io e la nonna prendiamo i posti “per invalidi e passeggeri con i bambini” - li c'è spazio per la scatola con i piantine, io guardo la strada dal finestrino: un viale che sembra un parco, con l'area per i cani, ma dietro si intravedano ancora le vecchie case di legno, sono i resti di un piccolo paesino. Mosca sta crescendo e si sta nutrendo di questi piccoli villaggi di legno, dopo pochi anni mangerà anche il viale-parco con l'area per i cani e lo sostituirà con i mostri-grattacieli di 24 piani; “Il mondo dei bambini” – un grande negozio dei vestiti, giocattoli e altre merci per i bambini; stazione ferroviaria Rizhskij; nella vetrina dell'ultimo palazzo sul Corso Della Pace – scendiamo alla prossima fermata, dopo che il filobus attraversa la piazza – c'è una bella insegna con le silhouette nera di una dama con vestito lungo e un cavaliere con la parrucca. Chissà cosa c’era lì, in quel palazzo: un ristorante? Un bar? L'atelier di una sarta? Il Filobus attraversa la piazza, e noi, con tutte le nostre scatole e borse scendiamo per cambiarne un altro – prendiamo il “B” o il 10 e andiamo avanti sull’ “Anello dei giardini” fino alla stazione ferroviaria di Kursk. A volte il nonno prende il taxi, ma capita raramente. Il nonno va a prendere i biglietti: mette le monete da 10, 15 e 20 copejki, accumulati durante l'inverno dentro un distributore, pigia il bottone e prende il biglietto. Mi ricordo vagamente i treni della mia infanzia: panchine di legno chiaro, tanta gente, i moscoviti con le piantine, i non-moscoviti con le borse piene di burro, mortadella, salsicce... certe cose si poteva comprarle solo nella capitale... Finalmente siamo sul treno. I giorni lavorativi il treno trasporta i lavoratori dalla periferia a Mosca, i giorni festivi – i moscoviti in campagna, alla loro dacia). Non mi ricordo nemmeno le vedute dal finestrino – cosi forte era la sensazione di pregustarmi la DACIA e allora le impressioni e i ricordi di questo viaggio guizzano nella mia memoria come i binari e le stazioni che scorrono dietro il finestrino.. ”Putrinca” - che nome schifoso e la forza dell'immaginazione è tale che mi tappo il naso ogni volta che il treno si ferma lì... Abbiamo già passato le case rosse di “Cucino”. “Nonnina, quando arriviamo? Manca ancora molto?” Uso la tecnica “segni-indizi” per determinare l'avvicinamento alla nostra fermata: ecco la chiesa in cima alla collina, nascosta dietro gli alberi – siamo ancora lontani, abbiamo appena lasciato Mosca, ecco le case di mattoni rossi – siamo a metà! Quando dietro i finestrini cominciano a correre i capannoni industriali fuligginosi – siamo vicini, bisogna prendere la roba dal portaoggetti e tirare la nonna per la manica – e se per disgrazia perdiamo la nostra fermata!! Poi ho imparato a leggere, gli indizi furono messi da parte e in primo piano uscirono pitturati d'argento i nomi delle fermate, a volte correvano così veloce che non riuscivo a leggerli. Soltanto quando il vagone si fermava proprio di fronte all'insegna, riuscivo a farcela e a leggere anche i nomi lunghi. Si poteva applicare anche la matematica (calcolo) per non perdere la fermata giusta, ma con le chiacchiere, gli avvenimenti sulle panchine, mi distraevo troppo e perdevo il conto.
Ecco il “Nero”, si chiama proprio così una delle chiamate, ed effettivamente era nera, palazzi ed edifici ricoperti di nerofumo; uguali, non distinguibili “Chilometro 33” e “Chilometro 43” - si vede che dopo 20 fermate la fantasia dei... a proposito chi dà i nomi alle stazione ferroviarie? Si è esaurita...LA PROSSIMA!!!
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“RUSSANOVO”“ХРАПУНОВО”. Nell'infanzia, ma anche nella giovinezza mi vergognavo un po' per il nome di questa fermata – perché subito ne seguivano gli scherzi e allora alla domanda: “dove ce l'hai la dacia?” rispondevo sempre molto dettagliatamente, cominciando dalla stazione ferroviaria di partenza e con diversi toponimiche particolari, per evitare proprio la destinazione finale, la parola così poco raffinata Chrapunovo: “Dalla stazione ferroviaria di Kursk, nella direzione di Gor'kij, dopo “Kupavna”. “Kupavna” suonava più aristocratico.
Scendiamo dal treno. A sinistra – un piccolo mercatino improvvisato. Andiamo più a curiosare che a comprare. Con l'innocenza infantile commento tutto: i ravanelli troppo piccoli, le piantine un po' appassite, “e noi abbiamo i pomodori più grossi”, “e questi fiori ce l'abbiamo anche noi! Quanto? Dieci rubli? Roba da pazzi!”, vicino al cesto con i conigli guardo con uno sguardo di adulazione la mamma... Non funziona... Provo con la nonna... Invano.
A destra dal binario c'è l'edificio della stazione, anche se sembra un eufemismo chiamare così una vecchia izba incarnita nella terra, che come una vecchietta si inchina sempre di più verso il basso. Chissà se lì dentro attaccati ai muri tinti di verde ci sono ancora i vecchi orari dei treni, gli arrivi e le partenze?
Scendiamo dal binario e lungo gli stagni di acqua nera, come sul quadro di Polenov, lungo gli steccati, attraversando altre rotaie e saltellando da una traversa all'altra o bilanciandoci sulle rotaie (accompagnati dai rimproveri dei genitori) ci incamminiamo verso la dacia.
Dai tempi della mia infanzia il paesaggio non è cambiato molto, più precisamente, mutava gradualmente, cambiavamo insieme e perciò non mi scandalizzava un recinto di cemento – mi sono abituata, questo recinto appartiene al paesaggio come ne appartengono un alta ciminiera di mattoni rossi del borgo, una torre idraulica o la casa semi-finita direttamente all’entrata della casa di villeggiatura. Se sforzo la memoria – emergono dal passato remoto i lineamenti vaghi e confusi della vecchia baracca una volta esistita qui, o meglio, dei resti della baracca: quello che, mattone per mattone non hanno ancora portato via i villeggianti parsimoniosi – chi per rincalzare la stufetta, chi per rincalzare il muro – chissà a quante cose può servire un mattone! - l'edificio diventava sempre più vetusto e crollava giù sotto l'invadenza della natura: nel vano della finestra si è appollaiato un cespuglio di sambuco e proprio nel centro della casa vetusta, lì, dove una volta si riuniva la famiglia per bere il tè o, più probabilmente, visto la località e la vicinanza della fabbrica che faceva immaginare i residenti della baracca, si prendeva a botte ubriacandosi con la vodka, regnavano e imperversavano ora l'ortica e i garofani di bosco. I medesimi villeggianti che staccavano i mattoni dai muri ora buttavano sotto le rovine – seguendo la legge della conservazione della materia scoperta da Lomonosov (un scienziato russo del 700, nato in un villaggio remoto vicino a Archanghelsk, autodidatta, arrivato a Mosca a piedi, chimico, poeta, filologo, matematico, fondatore dell'Università di Mosca) – i sacchetti con le scatolette, le bottiglie, ma anche gli oggetti più corpulenti: televisori, frigoriferi rotti, materassi arrugginiti, carcasse dei letti e simile spazzatura non-organica. Mio nonno con la sua meticolosità e accuratezza portava tutta la spazzatura a Mosca sulle sue spalle. Evidentemente appropriati cassonetti dello sporco non erano previsti in campagna.
Dal cancello dell'entrata sul territorio della società “Giubileo”, dove si trovava la nostra piccola dacia, si può andare dritto lungo una fogna e poi girare subito prima della torre idraulica (prendendo questa strada si poteva in un colpo controllare se c'era l'acqua), poi girare a sinistra sulla quarta via, altrimenti si poteva girare subito dopo il cancello a destra, sulla via degli Aceri e poi arrivati al bivio girare di nuovo a destra, sulla via degli Aceri e dopo altri due bivi c'era la nostra via – delle Betulle. La passione di chiamare le vie secondo gli avvenimenti politico-ideologici non aveva toccato per fortuna il nostro villaggio e le vie si chiamavano con i nomi più che altro botanici, ma a me sembravano molto romantici: degli Aceri, dei Castagni, dei Giardini, delle Betulle, dei Pini, dei Sorbi, dei fiordalisi, dei Girasoli, via Centrale, delle fragole.
Non c'era ancora il verde (e qui capisco per l'ennesima volta che per mille motivi la traduzione in italiano sarà solo una copia dell'originale in russo. “Verde” in russo è anche modo per chiamare le erbe aromatiche dell'orto – aneto, prezzemolo, coriandolo, ma anche l'insalata e quindi in russo c'è un gioco di parole) – né dell’orto né delle foglie sugli alberi – e si potevano vedere tutte le case, prive dalla copertura folta degli alberi e dei cespugli. Il primo viaggio in campagna dopo l'inverno. Senza dormire, la sera torniamo a Mosca, purtroppo: la casa è ancora troppo fredda e c'è l'odore – così dicono gli adulti – dell'umido e dei topi, ma a me sembra l'odore di una casa vecchia e solitaria, che sente la nostalgia di noi durante il lungo inverno. L'aria dentro sa anche di erbe aromatiche e medicinali, messi a seccarsi sui letti e negli armadi e così rimasti per tutto l'inverno, dimenticati, impolverati: melissa, l'erba di San Giovanni, calendola...
Le case-antipode
La casa di Katia – gialla spelacchiata, di sbieco dalla casa nostra. Lo steccato grigio, pitturato cent'anni fa o forse mai, il giardino pieno di gramigna e di erbaccia, la casa mal curata e trasandata, il terrazzino d'ingresso di traversine ma senza il loro profumo tipico (adoro i profumi di traversine e di gas combusto degli autobus che si fermano davanti all'albergo, ci trascino la nonna ad annusarlo, con la scusa di vedere i castagni), il portacenere sempre pieno e le cicche su tavolo, un odore particolare di pigrizia e di spensieratezza.
Due case – due poli della mia invidia infantile – di Katia – con assoluto disinteresse per l'accoglienza, la pulizia, l'ordine e gli orari. Qui pranzavano alle sei di pomeriggio e andavano a letto alle 3 di notte, tutti, bambini compresi; suonavano la chitarra, giocavano alle carte, fumavano le papirosa (sigarette con bocchino di cartone) (in casa!! in presenza dei bambini!!!), non lavavano mai i pavimenti e nell'orto si prendevano cura solo delle fragole. Ma il posto più attraente era la soffitta, disabitata e polverosa. Ho sempre sognato di avere una casa con la soffitta buia, polverosa che nasconde qualche mistero, qualche segreto. Anche nella nostra casa di campagna c'è la soffitta, ma so benissimo che non nasconde nessun segreto, solo la vecchia roba, che non serve più né a Mosca né in campagna, (ma un giorno potrebbe servire! Un giorno quando dai negozi scompariranno tutti i vestiti). E poi nella nostra soffitta svernano i materassi, i cuscini, le forchette, i coltelli e altri oggetti pregiati: in autunno il nonno alza in soffitta tutti gli oggetti di valore che potrebbero essere rubati d'inverno, in primavera li porta giù. Io non potevo salirci, la nostra soffitta era accessibile solo attraverso una scala a pioli che si appoggiava fuori alla parete della casa e così per la prima volta sono andata là oramai maggiorenne – e sono rimasta delusa –i vecchi giornali ingialliti (“Trud” (Lavoro) e “Pravda” (Verità) – mio nonno vi era abbonato da decenni, a volte capitava anche meno politicizzata “Nedelja” (Settimana); una tanica di alluminio da 20 litri, vecchi mobili... e ancora le fruste di betulla non secche, di più - ridotti quasi a polvere e il suono della radio da laggiù... La soffitta di Katia era un posto misterioso, quasi una grotta di Ali-Ba-ba: i cassoni custodivano i tesori autentici e per appropriarsene non occorreva nessuna evocazione, nessuna magia e il permesso dei genitori!!! Lunghi vestiti da sera, schiariti al sole sarafan (vestito da donna senza maniche) con le perline e il pizzo, da ballo, con piume e pagliette, colorati e sgargianti da zingara, le scarpe con i tacchi, le collane di perle, sembravano oggetti di scena di una una troupe teatrale e non – come era da noi – il ciarpame portato da Mosca per finire i suoi giorni. Anche essi erano un po’ sciupati dal tempo e dalla tignola, ma a noi importava poco, li abbiamo provati tutti! Ci passavamo le ore a giocare con questa roba e nessuno ci diceva nulla, c'era solo un baule che ci hanno proibito di aprire! Chissà cosa custodiva! Forse una mummia o uno scheletro? E sì, lo scheletro della nostra vicina baba Klava! Ne sono sicura!
Il nonno di Katia è sempre stato un po' strano. Cioè, prima, da giovane, era forse normale, ma da quando ha preso una scossa dal parafulmine è diventato un po' sordo e ha i capelli sempre dritti in su come se fossero elettrizzati. Non so come ha fatto a prendere la scossa, ma Il-Nostro-Vicino-Di-Casa-Che-Sa-Tutto (si nasconde dietro la siepe e osserva o spia) dice che è andato sul tetto ad aggiustare l’antenna televisiva subito dopo il temporale e ha preso la scossa. Si alza presto di mattina e va non so dove, si frusta con l'ortica e dice che fa bene. Una volta ha litigato con altra nostra vicina, baba Klava, che ha 100 anni o di più, sta sempre sulla veranda a fumare la pipa, ha 3 cani che lascia sempre fuori di notte e quelli abbaiano. Una volta uno di questi cani ha morso il nonno di Katia. Dopo di che Klava è scomparsa, nessuno l'ha più vista. Il-Nostro-Vicino-Di-Casa-Che-Sa-Tutto dice che è stata ricoverata per un ictus e che ha chiamato lui l’ambulanza, ma io non ci credo. Non ho visto nessuna ambulanza, non è passata nessuna macchina perché l’erba sulla strada non è schiacciata e non si vede nessun impronta. Sono sicura che per vendicarsi il nonno di Katia ha preso baba Klava e l’ha nascosta dentro quel baule. Ho raccontato tutto a Katia e lei voleva correre dai carabinieri, ma se vengono i carabinieri, non vediamo niente! Ed io volevo vedere la parrucca e la dentiera di baba Klava, non ho mai visto una dentiera in vita mia! Finalmente i genitori di Katia sono andati a Mosca, per lavarsi (non hanno nemmeno la doccia fuori, loro, solo una vasca arrugginita piena di larve di zanzare e uova di rane). Katia ha detto che non ci si lavano lì dentro, serve per i cetrioli.
“Mazza! Che schifo! Non ti fa schifo lavare i cetrioli con questa acqua?”
“Ma che! Non è mica per lavare, è per annaffiarli!”
Allora, quando i suoi sono partiti, siamo saliti subito in soffitta. Ma sono passati cent'anni prima che decidessimo chi dovesse aprire il baule. “È stata tua l’idea di aprirlo, allora vai!” - diceva Katia. “No, cara, il baule è tuo, e quindi lo devi aprire te!”. Con una filastrocca un po' meno raffinata dell'ambarabacicicocco italiano (perché parla di una scoreggia) toccò a Katia. Ma era così buio lì dentro che siamo scese di nuovo a prendere la torcia del nonno (senza il permesso, ovvio!). Il portello del baule era molto pesante, e Katia non riusciva ad alzarlo. Finalmente, dopo diversi tentativi ci siamo riuscite! Ma poi le è sfuggito e le ha chiuso le dita. “A-aaaaaaaaaa!!” gridò Katia. Mi spaventai e mi fiondai giù per le scale, inciampai a metà e cascai di sotto. Poi ho un vuoto nella memoria. Quando mi sono ripresa, ero in braccio alla mia mamma, mi stava coccolando e mi faceva giocare con la sua collana. Dopo questo mi hanno proibito di andare da Katia poi le vacanze sono finite e siamo partiti per Mosca. Solo l'estate dopo Katia mi raccontò che aveva fatto quell'urlo non per la paura ma perché ha chiuso le dita e non ha visto niente nel baule perché io con la torcia in mano sono cascata dalle scale. E solo dopo cinque anni abbiamo saputo che i genitori di Katia tenevano in quel baule i libri proibiti dal regime sovietico.
Completamente diversa – la casa di Natasha – ordinatissima e bella. Bisognava togliersi le scarpe sul terrazzino d'ingresso, il pavimento era di legno tinto e non di linoleum come da noi, lucidissimo; piccoli tappeti dappertutto, una scala di legno chiaro laccato conduceva non ad una soffitta qualsiasi con le ragnatele e le fruste di betulla polverose, ma ad un primo piano abitabile e carino dove al posto di “Pravda” e “Trud” ingialliti c'erano le pile di riviste “America” e “Inghilterra”. Sulle pareti di casa – i quadri veri e non i poster ritagliati dalle riviste. Un altro mondo. Natasha ha vissuto con i genitori qualche anno a Baghdad e aveva i jeans veri, di marca, le gomme da cancellare profumatissime e la vera Barbie!! Anche il giardino di Natasha era esemplare: un sentiero asfaltato portava dal cancello alla casa, affiancato dalle incredibili rose che sopravvivevano ad ogni gelo invernale, esotiche begonie, dalie...
Ecco quali erano i due estremi della mia invidia: la casa caotica e anti-ordine di Katia e super pulita e ordinata di Natasha. La mia era giusto nel mezzo: una casa troppo ordinaria, normale, senza eccessi ed è per questo che non mi piaceva. Da bambina mi piacevano solo le cose fuori dal comune: un mio amico è nato sull’isola della Libertà, Natasha ha vissuto tre anni a Baghdad, persino Irina ha una grande ferita sulla guancia.. ed io? Niente! Niente di particolare!
Invidio anche i bambini che non dormono nel pomeriggio, che non vanno a letto alle nove di sera e possono giocare a nascondino nel buio: fanno chiasso, urlano cosi forte che il mio nonno si alza dal letto, apre il cancello già chiuso a chiave ed esce fuori per chetare e sgridare i ragazzi. Ma loro si disperdono dietro i cespugli e le grandi botti (dove i villeggianti bruciano la carta, i rami e l'erba secca) si tappano le bocche con le mani per non scoppiare in risate e ascoltano nel buio l'allontanarsi e l'avvicinarsi “din'din'” delle fibbie dei sandali del nonno. Intanto io mi volto e mi rigiro nel letto: la camera è piccolissima e ci dormiamo in quattro, c'è l'afa, sotto l'orecchio si sente una zanzara noiosa, la nostra vicina sorda Klava ha alzato il volume della televisione al massimo, ma è soprattutto l'invidia e il pensiero che i miei amici sono là, fuori, che giocano, ridono, si divertono mentre io sono a letto, che non mi fa dormire. Il nonno rientra e il chiasso fuori, sulla strada riprende, cominciano ad abbaiare anche i cani di Klava, arrabbiati più di noi con i ragazzi, poi, prima che cada il silenzio, mi addormento per svegliarmi di nuovo da lì a poco dal russare del babbo...
* * *
Ho già raccontato com'era la casa di Natasha, ma non era solo bella. Tutto da lei era anche più buono: le fragole, i cetrioli, i piselli, le amarene. Quando i genitori ci costringevano ad aiutarli e raccogliere tutte le bacche e i frutti, per fare la marmellata: ribes nero, ribes rosso, uva spina, lamponi, mi divertivo a farlo solo da lei, così buona era la frutta. Abbiamo persino inventato un gioco: “Il re senza fondo”: mentre raccogliamo le bacche una sì una no finiscono in bocca piuttosto che nel cestino. Ma stranamente i nostri genitori non ci sgridano, al contrario: sono contenti, perché finalmente mangiamo “le vitamine vive” (di solito ci piacciono i gelati, i cioccolatini, le caramelle, le patatine fritte e altre “porcherie”. Mangiamo le bacche solo quando sono ancora verdi oppure le rubiamo dai vicini – così sono più buone). Altri lavori di corvè sono ancora più noiosi: lavare i piatti, sparecchiare, spazzare in casa, ma soprattutto lavorare in giardino: diserbare le fragole, l’insalata, i cetrioli, raccogliere le foglie secche, tagliare l'erba (all'epoca non esistevano ancora, almeno da noi, i taglia erba elettrici. Che noia! A me piace solo annaffiare e scavare, per esempio un laghetto sotto il melo. È quasi come fare un cunicolo dalla prigione: bisogna lavorare di nascosto, quando il nonno riposa o è dai vicini, perché se mi vede, mi sgrida. Lui dice che posso danneggiare le radici del melo. Un altro motivo perché mi piace scavare: spero di trovare un tesoro o le ossa di un mammut.
Gli ospiti
Talvolta vengono con un piccolo “Zaporozhez” i nonni “lontani” (abitano, a differenza dei nonni “vicini” anche essi a Mosca, ma proprio dalla parte opposta della città): la nonna Tanja e il nonno Kolja, i genitori della mamma. Il nonno è invalido della grande guerra patria (seconda guerra mondiale) e così ha il diritto alla macchina, un “Zaporozhez”. È l'unica macchina che abbiamo in famiglia. La nonna fa il dottore, il terapeuta perciò quando viene a trovarci, mi visita sempre: palpa la pancia, mi guarda la gola con un cucchiaino, mi tocca i linfonodi. Mi dice di fare la ginnastica per la schiena e portare sempre l’apparecchio per i denti, di non dormire né sul fianco sinistro né sulla pancia… A volte viene anche da sola, senza il nonno, con il treno, vestita di una camicetta marrone con i piccoli mazzi di fiori e una gonna marrone...
Poi vengono a trovarci gli zii con la figlia Lena con le bici dalla loro dacia non molto lontana dalla nostra, e anche Lêsha, il nipote di una amica della nonna, viene a trovarci in bicicletta ma quando arriva mi vergogno e mi nascondo nel ripostiglio (che però si chiama – non appropriatamene e non so perché – il pergolato). Ma l'ospite più gradito è la zia Lêlja. Lei delinea con una penna – l'ho visto con i miei propri occhi!! - i quadretti sulla tovaglia, (guai farlo noi!), non si vergogna di usare le espressioni “forti” - e nessuno la riprende, tutti a ridere, racconta le barzellette “sporche”, ci porta vobla e il grano saraceno (le davano quest'ultimo in zakaz – specie di razione di viveri di alimentari che non si trovano facilmente in commercio - e si chiama deficit – perché ha il diabete), scherza ad altissima voce e i suoi scherzi, anche se sono grezzi, fanno ridere sempre, tutti, da matti, e tutto il suo fisico di balena (aveva, come ho già detto, il diabete e un mucchio di dolori, ma alle persone davvero malate non piace parlare di proprie malanni, loro lasciano questo privilegio alle ipocondriache tipo me), sprizzava ottimismo e giocondità.
Con la nonna andiamo a trovare alcuni vicini e a vedere i loro pomidori, cetrioli e altri ortaggi, per confrontare, per condividere l'esperienza e qualche ricetta: zia Ženja Glinina, lei abita in via dei Meli e per andarci passiamo per il giardino della zia Shura – era una scorciatoia. (non sono i nostri parenti, ma è un modo famigliare di chiamare le persone adulte, usate dai bambini – non signora, ma zia, “tjetja”). Mentre la nonna chiacchiera con l'amica, mi infilo sotto la casa a cercare le crisalidi che pendono con la testa in giù attaccate al fondamento di casa. Andiamo anche da Evgenija Mihajlovna, un’altra amica della nonna, e dallo zio Žora. Ora sono tutti in pensione, ma prima lavoravano tutti insieme al Mosgeotrest (un ufficio di geodesia e cartografia). La casa di zio Žora è piccola, ad un piano, perché è solo e mi fa pena: le donne senza figli e gli scapoli, secondo la mia logica infantile, sono le persone più infelici del mondo. Ma lui non si sposò mai...
Proprio lui ci ha regalato un gallo picchiettato T'ut'ka, non so come l'ho avuto – zio Žora non allevava le galline, veniva in campagna solo ogni tanto di domenica. E così questo gallo rimasi da noi tutto l'estate. Riconosceva solo la nonna e guardava gli altri con sospetto, inchinando la testa sul fianco. Temo, che in autunno lo avessimo mangiato. Mi sembra di ricordare quel giorno perché gli adulti non avessero mangiato il brodo di pollo.....
* * *
D’estate mi annoio solo durante la pioggia e la diarrea (in entrambi casi devo rimanere a casa da sola, cioè senza le amiche) o quando Natasha gioca con Valentina (io non accetto l’amicizia in tre). D’estate so sempre cosa fare e come divertirmi, siamo molto ingegnose nell’ inventare i giochi e divertimenti. Oltre i tradizionali giochi acchiapparella, nascondino, badminton, costruzione delle capanne e casette, non graditi dai genitori giochi a carte, facciamo diverse esperimenti zoologici, entomologici, ornitologici, botanici; organizziamo l’asta dei cavalli corridori (il ruolo dei cavalli lo interpretano svariate cavallette: verde smeraldo, color sabbia, con un piatto para busto fra le zampe anteriori, bordò). Inventiamo per loro i nomi e caratteristiche buffe; costruiamo i castelli e le fortezze di sabbia e fino al buio giochiamo con le “chiodine” fatte di chiodi del nonno e vestite con i fiori.
Per migliorare il terreno del giardino i villeggianti comprano di volta in volta la terra, la sabbia, lo sterco, la torba. Ma non nei sacchi. Nei camion. Le scaricano appena fuori dal recinto, bloccando praticamente tutta la strada, allora con le carriole e i secchi bisogna sgomberarla in fretta per lasciare libero il passaggio prima del sabato quando arriva tutta la gente, le macchine sono poche, ma bisogna liberare la strada lo stesso. Il camion non può scaricare la sabbia direttamente nel giardino perché il cancello è troppo stretto, non ci passa. Così per qualche giorno o addirittura settimane – se i padroni sono lenti a trasportare la sabbia dietro il recinto – abbiamo a disposizione una montagna di sabbia! E ci divertiamo un sacco a costruire i castelli, le gallerie, i pozzi, i palazzi, i giardini, stiamo lì, sulla montagnola di sabbia fino al crepuscolo o finché non ci sgrida il padrone, a costruire e a giocare.
* * *
Ma chi mai potrà capirmi qui, in questo paese beato dalle dolci colline verdi, chi mai potrà capire la mia nostalgia di deboli e incerte primavere, della neve morbida e abbondante? I miei figli? I quali parlano l'italiano meglio di me e temo che fra poco lo parleranno meglio del russo? Ma i quali, soprattutto, hanno mille fili invisibili che li legano all'Italia: tutti i minuscoli sensazioni, i sapori, gli odori, le associazioni... Il tortoreggiare delle tortore a giugno, il frinire delle cicale ad agosto, i sapori della pasta al pesto e del cocomero ad agosto, del pandoro a Natale... Perdonatemi questi esempi, sembrano più i luoghi comuni e non le associazioni profonde, e questo conferma il fatto che le associazioni creati da grandi sono più piatte, non sono radicate così profondamente, così dentro di noi che ne fanno parte, che non sono più i fili ma sono una parte di noi stessi, della nostra personalità. Ecco perché i miei figli sono italiani.
E mio marito?
“Ha detto: questo è il profumo dell’autunno. Sentivo soltanto l'odore acidulo dell’uva mezza marcia. E questo odore non aveva nel mio archivio personale di odori nessun posto esatto, nessuna etichetta, non aveva il suo sosia nel mondo immateriale. Era solo un odore (quasi puzza) dell’uva marcia. Non era un odore-sensazione che risveglia i ricordi e dall’eternità caotica di pezzi, episodi e frammenti della vita tira fuori quell’unica associazione che si apre poi nella tua mente come un colorato, tridimensionale e Vivo quadro. Come se esistesse la macchina del tempo –cosi vera e piena era l’immagine e la sensazione. Ma questo era un odore nuovo, odore da provetta con una etichetta appena attaccata “L’odore di uva marcia, 12/11/04, collegamento emotivo – l’autunno italiano”, ma era un collegamento artificiale. Sapevo che esisteva, che sarebbe dovuto esistere, ma non sentivo niente. Il meccanismo profumo-quadro vivo nella mente, un salto nel passato, non funzionava. Era come se un non credente fosse entrato in chiesa: sa che dovrebbe provare devozione/adorazione ma dentro di sé non sente niente. Era un odore morto. Invano cercavo di adattarlo alla mia scala abituale: l’odore di compost – e il suo sosia immateriale – la sensazione di una giornata calda primaverile in campagna? No, l’odore di compost era più pesante… L’odore al mercato d’ingrosso della verdura? e subito si risveglia un’immagine: un freddo e piovoso sabato, un giorno grigio e noioso, uno delle tante giornate spente, uguali, uggiose. Era l’ odore del freddo, del la cantina, dello stucco fradicio, un odore più di città…Continuavo a cercare i riferimenti…Il vino andato a male? Si, come odore potrebbe starci ma il collegamento emozionale mancava di nuovo, il vino andato a male non suscitava in me nessuna associazione, non mi diceva niente.
Ho detto: questo è il profumo dell’autunno. E lui sentiva soltanto l’odore delle foglie fradice e marce. Per me invece era l’odore del parco in autunno, delle ultime giornate ancora belle e serene prima del tempo bigio dell’autunno inoltrato, l’odore di una felicità un po’ melancolica, come la mela con un fianco fracidicio…
Una volta d’inverno al mare ho detto: sento l’odore fresco del bosco della campagna moscovita in primavera. Era cosi forte! L’aria era piena di freschezza, di un presentimento di rinnovamento. Ha detto: sei davvero pazza. È l’odore del mare.
Associazioni….»
E cosa ne rimane? Che cosa rimane di tutto ciò? La vecchia foto ingiallita con il parco innevato? Una vecchia foto che sembra in bianco-nero, così tenui e pallidi sono i colori: il bianco della neve, il nero degli alberi, il grigio del cielo e del ghiaccio.? I ricordi frammentari ingannevoli e ingannanti? Le lettere?
* * *
Un filo d’aria ha passato per la casa: la porta-finestra che dà sul giardino era aperta e quando ho spalancato la finestra della camera si è formata la corrente. Ha gonfiato le tende, mulinato la polvere dietro la porta (bisogna passare l’aspirapolvere prima che mi becca mio marito), alzato i fogli di carta ingiallita – le lettere di nonna, mamma, babbo, zia Lelja. La porta ha sbattuto e tutto si è fermato: le tende sono calate e sono tornate al loro posto iniziale, la polvere si è posata nuovamente lungo il battiscopa, simile a una nuvola grigia, i fogli ingialliti delle lettere sono atterrate sul tappeto. Bisogna passare con aspirapolvere anche qui: il sole forte del mattino ha messo in evidenza tutti i fili, i minuscoli pezzi di stoffa, di paglia. Ed invece io ammucchio le lettere e comincio a sfogliarle, a leggere. Leggo una pagina ingiallita dietro l'altra e penso al veloce scorrimento della vita. La mamma descrive l'allattamento, le mie prime parole, tentativi di sedermi nel lettino,di stare in piedi, il bagnetto... sembra – anche se è una banalità – che fosse solo ieri. Esiste il modo di fermare, di conservare tutto questo? O il modo migliore è di chiudere per sempre tutte le porte che conducono all'infanzia, al passato, ricoprire tutte le fessure e fessurine, mettere la carta o la paglia nella toppa della chiave e poi, per precauzione, sigillare il tutto con la ceralacca. E allora si può continuare a vivere, senza rimpianti che sia finita, che non potrai più giocare ad acchiapparella, o sognare la nuova bambola, o correre scalza sul fango, o nascondersi nell'armadio durante la pioggia, o desiderare di vincere nel gioco dell’oca... Certo, si potrebbe fare tutto quanto anche da adulto: saltare, giocare, correre, ma non sarà mai più per davvero, come nell'infanzia. E altre cose ancora non torneranno mai più: la gioia delle vacanze scolastiche e la gioia ancora maggiore del loro presentimento annunciato nell'aria dai profumi degli alberi in fiore e dagli altri, non decifrabili e non attribuibili a niente di concreto tranne la primavera.
segue...
- Come si dice albero di Natale in russo?
- Si dice Новогодняя елка.
- Nogodna elka
Cнег
Sneg
Le vecchie cose...
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